Sono una maestra, semplicemente. Ed è sempre la prima cosa che mi piace dire di me perché è un appellativo di cui sono molto orgogliosa. Ho iniziato a lavorare giovanissima e sono approdata alla scuola dopo un’esperienza aziendale che è stata fondamentale per la mia formazione. Ho avuto una storia professionale vivace che mi ha vista passare attraverso esperienze e incontri significativi che mi hanno fatto la maestra che sono. Da ormai dieci anni ho scelto di stare a scuola tutta intera, scelta che considero la più bella della mia vita professionale. Ho compreso che solo vivendo la scuola da dentro, con presenza completa, possono nascere riflessioni utili a interrogarsi per attivare quei cambiamenti necessari che le restituiscano un ruolo fondamentale nella vita dei bambini, dei ragazzi, nella società. A chi mi chiede quale sia la mia idea di scuola, rispondo che per me deve essere prima di tutto un luogo in cui stare bene, in cui conoscersi e incontrare l’altro, in cui fare propri i valori fondamentali di una comunità; un luogo che sappia fare innamorare dei saperi e, prima ancora, della vita. La mia è una didattica che amo definire “a bassa direttività”, basata sul protagonismo degli alunni e sulla responsabilità. Credo in una scuola capace di tenere alta la motivazione, che non dia risposte, ma provochi di continuo nuove domande e metta in moto verso la scoperta. Che sappia “passare la palla” agli alunni con fiducia, lasciando ampi spazi di libertà. Perché, ne sono convinta, il più grande limite della scuola è l’incapacità di liberare e di liberarsi, è il muoversi sempre con i freni tirati, guidata dalla logica del controllo. Una logica che non consente di accogliere ciò che nasce fuori, di muoversi in relazione con il mondo, di promuovere le sane contaminazioni, di valorizzare il “pensare altrimenti”.
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